
Quando ho raccontato a Sergio che in coda al trasloco del secolo mi sono messa a sistemare anche le categorie del blog, mi ha definita un passo oltre Marie Kondo: «sopravvivi al 2020 con il RIORDINO TOTALE!».
Non sono una persona molto ordinata con gli oggetti: la cosa che più detesto sistemare sono i vestiti e la biancheria. Quando andavo ancora al liceo la mia scrivania era in ordine solo di domenica sera, prima di ricominciare la settimana. Nel mio disordine fisico, come probabilmente tutti i disordinati, mi oriento benissimo.
Se anche la mia stanza era un disastro, i quaderni, i libri e gli spartiti erano sempre perfetti: c’erano i segni che prima o poi mi sarei appassionata a cose come il bullet journal e maniacalità affini. L’ordine mentale nella mia testa forse è scollegato dall’ordine delle cose, chissà cosa ne direbbe uno psicologo (no, meglio non sapere).
Un post ogni tre mi riprometto di scrivere sul blog con maggior costanza, ormai mi sembra di svegliarmi nel giorno della marmotta. Glisso quindi su questo proposito, e rispolvero una mia vecchia idea di qualche anno fa: scegliere cinque parole di cui avrò bisogno nell’anno che sta cominciando.

Cinque parole per il 2020
Le parole che scelgo per il 2020 fanno i conti con l’avere una bambina di poco più di un anno che non va ancora all’asilo. Non intendo diventare una mamma freelance-blogger, ma non posso nemmeno omettere questo dettaglio facendo finta che la gestione del mio tempo sia la stessa di sempre.
Queste parole mi aiutano a limitare la frustrazione che mi assale davanti a una lista delle priorità incentrata su un esserino totalizzante*, per quanto delizioso e gioia-della-mia-vita. Mentre tu vorresti magari anche andare dal parrucchiere non dico a fare la piega settimanale, ma una volta ogni tre mesi: non sembra troppo, no?
Elasticità
I piani saltano. Avevi deciso di alzarti prima, con molto sforzo, per scrivere o per goderti mezz’ora di silenzio senza nessuno in giro? Sicuramente ci sarà un motivo per cui non dormirai bene la notte e allora il sonno scalzerà ogni priorità. Quando ritornerà quella mezz’ora di silenzio tanto desiderata? Che stizza!
Navigo a vista. Quando meno me l’aspetto la mezz’ora ricompare: l’importante è non vergognarsi di acciuffarla. Smettere di rimanerci male per il sogno sfumato della giornata perfetta che ci ha tenuto in vita il giorno prima e acchiappare quella piccola mezz’ora di perfezione quando ci passa davanti. Meno malumore e più momenti di quiete.
Valore
Se dovessimo venderla al mercato, che valore avrebbe quella mezz’ora imprevista che siamo riusciti a strappare? È una pepita d’oro trovata per caso: è sempre oro, ma il caso ai miei occhi la impreziosisce, è un bene inaspettato. Per questo non la trasformerei in bulloni, ma in gioielli.
Sappiamo che il tempo è la risorsa più preziosa, ma quando non dobbiamo spartirlo con altri ci risulta più semplice usarlo con noncuranza, sprecarlo. Non c’è molto di male a sprecare il tempo, ma in questo 2020 sento che sarà meglio occuparlo con qualcosa che mi procuri benessere. Ne parlava anche Luca a fine anno, e la sua lista di cose inutili da sfrangiare è simile alla mia.
Ma poi mi accorgo che probabilmente è solo un tarlo
di uno che ha tanto tempo ed anche il lusso di sprecarlo
Il pensionato, Francesco Guccini
Propulsione
Quando lavoravo ancora in Rizzoli avevo avuto l’occasione di sfogliare Maam. La maternità è un master: gli autori ribaltano il paradigma e anzi che pensare alla maternità come un ostacolo o un limite (prevalentemente in ambito lavorativo), propongono di considerare come nuove competenze le energie e le abilità che derivano dall’avere dei figli. Mentre annego nella quotidianità mi sembra di non riuscire a concludere niente, ma se guardo indietro mi stupisco: quando sono riuscita a fare quello che ho fatto?
Sono una persona pigra, e un figlio non concede spazio a troppa pigrizia. Ma potrei pensare: ehi, mia figlia è riuscita a liberarmi dal 20% della mia pigrizia! Grazie bambina! E quando tu sarai più indipendente e il tempo piano piano tornerà da me, quante cose in più sarò in grado di fare grazie a questo allenamento?
Riconquista
Riconquista di tempi e spazi miei, da non dividere con nessuno, aggiungendoci il carico del mio carattere introverso, che di questi spazi ha un bisogno fisiologico, di ricarica. Poter andare a nuotare tre volte a settimana e dal benedetto parrucchiere quelle volte necessarie, pur con le incognite che richiede l’elasticità di cui parlavamo.
Riconquista senza sensi di colpa, senza considerare sempre i propri bisogni frivolezze da spostare in secondo piano. Il punto non è il parrucchiere, è il tempo da dedicare a se stessi. Sentirsi in colpa perché ci si prende cura di sé impedisce di puntare alla conquista dell’ultima parola di questo elenco, forse la più importante.
Serenità
Il 2019 è stato un anno densissimo, ricco di molte cose ma la prima della lista forse non è stata la serenità. Non è successo niente di male, anzi, tutto di bene; comunque molto è successo e si è dovuto gestirlo con fatica e senza aiuti.
Quindi spero per me e per la mia famiglia che quest’anno ci sia più spazio per godersi quello che si è costruito, senza avere sempre qualcosa di urgente da fare: il bello dell’avere un lavoro, una casa di cui finire i dettagli, una bambina, due gatte grasse e tutte le persone care in salute.
Note
* Sarebbe da aprire il capitolo delle non-gioie della maternità, senza sentirsi cattive madri per questo, non è vero? L’omertà infetta il sangue: donne, parliamone.
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Sto per cominciare il nuovo corso di Editoria Digitale per il Master in Editoria dell’Università di Verona, e ho pensato che può valere la pena raccontare come cambia, per me, insegnare questa materia nei vari contesti in cui mi capita di farlo. Due anni fa scrivevo un articolo simile a questo, e dicevo:
Sono passati dieci anni, e sono felice di fare ancora corsi sull’editoria digitale. Quello che dopo tanto tempo mi va invece molto stretto è il bisogno di doverla ancora distinguere da un qualche tipo di editoria analogica. È dagli anni ’80 che l’editoria di analogico ha ben poco: il libro e i suoi processi di produzione sono digitali dalla prima stesura del manoscritto (che continua a chiamarsi così anche se non implica carta, penna e calamaio) fino all’ultimo passo prima dell’andata in stampa. E a volte si tratta persino di stampa digitale.
Eppure, nelle case editrici, il digitale continua a entrare troppo spesso malgrado chi le dirige e ci lavora, e in genere dalle porte sbagliate: dal rumore e non dalla strategia. L’editore va a caccia di farfalle: di autori “famosi su Twitter”, di magiche “viralizzazioni” che sembrano epidemie di influenza, di metriche che significano solo vanità e non sostanza, e l’elenco potrebbe proseguire.
Mi piacerebbe dire che noto grandi differenze, ma salvo eccezioni mi sembra che siamo più o meno ancora a questo punto. Per fortuna, però, la formazione che continuo a fare sull’argomento, non sempre destinata agli editori, evolve ogni anno: se alcuni discorsi generali continuo a non darli per scontati, le parti che riguardano prodotti e processi le rinnovo spesso. Vi racconto cosa sono riuscita a fare in un paio di casi recenti.
Cosa ho cambiato nei corsi sull’editoria digitale
A seconda del numero di ore a disposizione, cerco di trovare un equilibrio tra teoria e pratica: se cinque anni fa una lezione frontale funzionava ancora bene oggi è raro che sia così. È principalmente la pratica ad aver cambiato il volto delle lezioni.
Grazie a Luigi Civalleri, che continua sconsideratamente a invitarmi per parlare di editoria digitale all’interno del Master in Comunicazione della Scienza “Franco Prattico” alla SISSA di Trieste, ho potuto sperimentare diversi metodi per rendere il senso del lavoro di progettazione – di design, dovrei dire, ma in italiano mi sembra più chiaro – per chi si occupa di progetti editoriali in senso lato.
Quest’anno, per esempio, ho lavorato per far capire quanto le tecniche di co-design siano utili per definire correttamente i problemi da risolvere, e stabilire le priorità. Ho proposto un diagramma di affinità (o affinity map) per far emergere i problemi di un sito di comunicazione scientifica conosciuto da tutti gli studenti. I problemi sono emersi in modo così chiaro che non è stato necessario raffinare i risultati attraverso il dot voting che avevo ipotizzato di associare. «Ma se è così semplice trovare i problemi anche quando tante persone sono coinvolte nel processo… perché gli editori non lo fanno?», ha detto una studentessa, illuminandomi la giornata. Se non è semplice, almeno è possibile.
Ho provato un percorso simile anche nella formazione fatta a luglio in una grande gruppo editoriale. Il cuore del corso era la produzione di eBook, parte di cui si è occupata l’ottima Valentina Voch con cui collaboro in queste circostanze: io non mi occupo di produzione di libri digitali da troppo tempo per insegnare come si fa, anche se capita che me lo chiedano ancora. Il mio compito, in questo caso, era di sparigliare le carte con una lezione introduttiva: un’assaggio di co-design è riuscito a dimostrare come si possono cambiare le abitudini più radicate. La scomodità che ho visto negli occhi di alcuni partecipanti e alcune prese di coscienza molto oneste mi sono sembrate un segno di buona riuscita (ma giuro che nessuno è stato maltrattato!).
Avvertenza: il co-design è una cosa seria!
Tenete presente che non sono una facilitatrice: quelli che propongo sono solo assaggi di tecniche in cui non sono specializzata, e quando le scelgo faccio attenzione a usare dinamiche semplici, alla portata della mia piccola esperienza. Si rivelano efficaci: aprono una finestra su un metodo di lavoro così diverso da essere quasi copernicano e mostrano una strada nuova per raggiungere la soluzione dei problemi. I partecipanti, non abituati e non preparati a collaborare tra loro, ci si affacciano con il disagio tipico dei lavori di gruppo in classe: diffidenti, imbarazzati, alcuni curiosi e divertiti. Arrivano alla fine stupiti dei risultati ottenuti grazie alla partecipazione di tutti.
All’interno dei circoli viziosi in cui l’editoria è impantanata, questi esperimenti sembrano avvicinare l’impossibile: far capire, cioè, che è davvero questione di cambiare mentalità e metodi, prima di ogni altra cosa, per raggiungere risultati che si possano davvero definire cambiamenti.
Nuove materie, vecchie materie

I legami tra editoria e digitale, per quanto mi riguarda, non ruotano esclusivamente intorno ai libri. Se è vero che parte del mestiere dell’editore è saper trovare la miglior forma per i contenuti che seleziona, non è detto che oggi si debba finire sempre tra carta e colla (o bit costretti alla linearità forzata di un ebook).
Ho avuto l’occasione di insegnare per la prima volta Ux Writing nel master in UX Design per il Talent Garden di Milano. Bellissima sfida dover imparare come trasmettere qualcosa che finora ho solo fatto e mai spiegato (e la sfida nella sfida, farlo in 4 ore); la cosa migliore è stata la quantità di cose che ho potuto imparare io stessa dagli studenti.
Capita soprattutto quando si tratta di master pensati per chi già lavora e deve migliorare delle competenze – e come sapete gode già per questo della mia stima. La freschezza nei punti di vista, nelle domande che hanno una concretezza difficile da soddisfare, la praticità nel trovare soluzioni, tutto questo mi arricchisce in modo incredibile.
Una ragazza mi ha domandato: «Com’è fare il mestiere di ux writer, nella pratica? Se ne legge così tanto…» Non amo le risposte “giuste”, in questi contesti: penso che il mio compito, da insegnante-professionista, sia quello di dare risposte schiette. Ecco perché le ho risposto che questo lavoro è un casino. Bello, certamente, ma niente – come dovremmo già sapere – funziona come in un manuale.
Nella mia esperienza, per ogni nuovo progetto serve inventare un flusso per far girare gli ingranaggi: la raccolta delle informazioni necessarie per lavorare, il coordinamento con il team di design, il rapporto con gli stakeholder, la produzione concreta dei testi, i cicli di approvazione e rilascio. Nei manuali, in qualunque lingua siano, sembra esistere una sequenza ordinata di azioni, uno scambio idilliaco di informazioni tra tutte le persone coinvolte nel progetto, e tutto quello che resta da fare è concentrarsi sulla perfetta sfumatura di significato da scegliere. Del resto si deve pur trovare il modo di scriverli, questi benedetti libri, lo capisco.
Non è così quando si lavora, è meglio mettersi l’animo in pace: allenarsi a gestire situazioni caotiche e trovare il modo migliore per arrivare al risultato in quella specifica circostanza.
Cosa vuol dire editoria digitale, nel 2019?
Vuol dire molto di più di quanto agli editori piaccia sentire, e continua a essere vero, loro malgrado, che non sono più gli unici attori in campo. Oggi guardo con grande curiosità al mondo di contenuti audio, a volte derivato direttamente dal libro (audiolibri) a volte pensato fin dall’origine per la voce e l’ascolto (podcast, audioserie, altri adattamenti): un nuovo mestiere da imparare.
(Editoria) digitale continua a voler dire imparare a usare bene strumenti che ci piacerebbe dare per assodati: fare bene un sito, fare bene una newsletter, saperla distinguere da una DEM, capire perché si usano i social network (e magari anche come, o anche solo la differenza tra una @ e un #, vi prego). O ancora, capire come gestire un eCommerce. O come evitare di additare perennemente il cattivo (Amazon, naturalmente) dimenticandosi di condannare con la stessa veemenza i propri panni sporchi.
Le cose di cui parlare, intorno al rapporto dell’editoria con il digitale, sono ancora tante, ne sono convinta. Ci provo anche quest’anno.

Nella mia cerchia di contatti, anche quando lavoravo ancora in casa editrice, i liberi professionisti sono sempre stati tanti. Da come raccontavano i loro impegni, sembrava che una parte consistente del loro tempo fosse dedicata a conferenze e formazione, e nel secondo caso sempre in veste di docente.
Possibile che intorno ai 40-50 anni non ci fosse più bisogno di imparare niente, mi chiedevo? Che ci si potesse dedicare solo a insegnare ad altri senza aggiornarsi o arricchire la propria conoscenza? Può darsi che si studi senza raccontarlo, naturalmente. Ma perché no? È qualcosa da non dire? E se invece si smette proprio di studiare, è sano? È davvero possibile che si sia visto e capito tutto, e che tutto sia stato già detto nel 2005, per dire un anno a caso?
Negli ultimi anni in cui lavoravo ancora da impiegata e in un ambiente poco stimolante, non studiare mi dava la sensazione di far crescere la muffa nel cervello. Per prendere una boccata d’aria, nel 2016, mi ero iscritta al Master in Architettura dell’informazione e User Experience Design: volevo dare basi più solide a cose che in pratica mi ero trovata a fare per istinto e in modo disomogeneo, con la sensazione di non avere mai padronanza del quadro generale, di non essere abbastanza competente. Non mi è mai piaciuto sentirmi approssimativa.
Digressione per boschi e sottoboschi

Esiste un fitto bosco di persone che impegna una dose di tempo imponente nella manutenzione e nell’amplificazione della propria presenza online. La faccenda del personal branding un tempo era (o sembrava) imprescindibile, almeno in certe bolle. Forse rimane tale, e sono solo io ad aver cambiato bolla: trovo che faccia meglio al mio spirito circondarmi di persone meno affannate a mostrarsi e più concentrate a costruire e condividere. Il rischio del personal branding, come diceva già molto tempo fa la mia amica Daria, è che si finisca per avere “la reputazione online di avere una reputazione online”.
Non riguarda solo i liberi professionisti: abbiamo avuto tutti, in azienda, colleghi che investono l’80% del tempo a dire quanto lavorano e a far apparire colossale anche un risultato immaginario. “Chi urla di più, la vacca è sua”, mi aveva insegnato una collega.
Nel rumore della rete le personalità ingombranti soffocano il sottobosco, togliendogli la luce. Falsano la percezione: tutto sembra concludersi in proclami altisonanti, onniscienza, onnipresenza, verità assolute, pochi dubbi e soluzioni certe, pronte da comprare. Il mondo sembra di chi urla più forte per avere (o vendere) la vacca. Quanto inquina le nostre giornate questo tipo di rappresentazione del proprio lavoro, se non di se stessi? Quanto spazio toglie a confronti più costruttivi questo ragliare costante?
Non studiare è irresponsabile
L’interdisciplinarietà dei lavori che hanno a che fare con il digitale può essere vertiginosa: a volte esalta, a volte spaventa. Credere di dominarla è un inganno: non studiare è impossibile, così come pensare di sapere abbastanza – figuriamoci tutto. Il lavoro concreto ha sempre accanto una traccia di ricerca e studio costanti.
A un certo livello di esperienza molto si può fare in autonomia, certo. Ma – tornando alla domanda iniziale – perché è così raro sentire un professionista esperto dire “ho fatto un corso su questo, ho imparato delle cose”? C’è qualcosa di cui vergognarsi, si cala di rango? E siccome ci tengo a razzolare come predico, vi spiego cosa ho studiato di recente e perché.
Ho scelto di studiare i dati

«No, io di numeri non capisco niente, sono laureata in Lettere!», era un alibi che non mi avrebbe fatto onore nemmeno se avesse avuto senso. Però è vero: io di numeri non capisco niente. Anche se lavoro soprattutto con le parole, nel 2019 farei un lavoro a metà se mi ostinassi a non capire come stanno funzionando una volta che le ho mandate in giro per il mondo. Senza contare che i dati non sono necessariamente solo numeri.
Oggi che i progetti editoriali hanno un così grave problema di sostenibilità, rifiutarsi di avere almeno le basi per comprendere i dati che ci stanno dietro – o per saper scegliere uno specialista che ci affianchi nel farlo, se serve – credo che sia una cecità autoinflitta (spesso addirittura sbandierata) molto grave.
Ho scelto di verificare e rafforzare quanto conoscevo di quest’ambito e ho dato un’occhiata all’offerta formativa online, conciliando le lezioni con il mio tempo e la difficoltà che per ora ho nel pianificare trasferte, e considerando in futuro di approfondire con un corso in aula.
Dati: le basi
Ho pensato a una partenza soft, e ho scelto i corsi della Dataninja School. Il format per la parte teorica è molto fresco e adatto a chi ha poco tempo; il progetto, però, richiede tempo e concentrazione: devo ancora concluderli, ma li ho trovati molto chiari e persino accattivanti. Fanno venire voglia di metter mano a quei benedetti fogli di calcolo!

SEO
Volevo dare una forma migliore a quanto sapevo di SEO, e mi sono resa conto che sapevo molto meno di quanto credevo. Ho cominciato leggendo Google SEO di Marco Ziero per Apogeo, dei cui manuali apprezzo l’attenzione editoriale e autoriale a non portare in libreria testi che invecchiano in dieci giorni.
L’ho trovato così ben fatto che ho seguito anche il corso online dell’autore su Digital Update, con molta soddisfazione: a questo affiancavo appena potevo i webinar di SeoZoom, con l’intento di sentire più voci sullo stesso argomento, e per affinare lo spirito critico.
Oltre che per fare ordine nelle informazioni che credevo di avere, queste basi mi sono state molto utili per imparare a disinnescare i fumogeni di chi si presenta come esperto SEO e anche copywriter e anche Ux Writer (oggi si usa) e anche… cos’altro hai detto che ti serviva? Un social media manager? È esperto anche di quello, basta che gli paghi una fattura.
Davvero difficile che una sola persona abbia tutte queste competenze in profondità. Io sicuramente non le ho: mi è molto utile, quindi, avere gli strumenti per saper scegliere bene qualcuno con cui collaborare, quando serve.

Analytics
Volevo migliorare nell’uso di Google Analytics. Come prima cosa ho seguito i corsi della Analytics Academy di Google stessa: anche qui un format molto efficace e pratico. Per non sentire solo l’oste che parla del suo vino, però, ho seguito anche il corso su Google Analytics, sempre di Digital Update.
A questo punto sarai cintura nera, penserete voi. Proprio no, bocciata. È la “materia” di cui sono meno soddisfatta: il mio errore è stato non applicare subito a un progetto concreto le cose che ho imparato, e ho finito per dimenticarne gran parte.
Cos’altro ho imparato studiando?
- Ad autovalutarmi. L’onestà nel dirmi che c’è qualcosa che dovrei sapere meglio e non so quasi per niente mi fa crescere. Fingere no. Più difficile è stanare qualcosa che credo di sapere, ma in realtà conosco in modo approssimativo. Riconoscerlo è un buon inizio.
- A non trascurare la pratica. Se non applico quello che imparo, in materie che mi sono poco congeniali, lo dimentico all’istante. Lo sapevo fin dai tempi di scuola, ma EHI, pensavo che la scuola fosse finita, di essermela cavata. No.
- Ad assumermi onori e oneri del tempo speso a studiare. Così ho smesso di avere l’ansia di dovermi mostrare competente in tutto per paura di non poter sostenere la competizione (e di perdere la fattura pagata). Vivere il lavoro come una gara non mi interessa, e a differenza di quanto può sembrare, non è affatto per forza una gara.
- A non perdere tempo con gli spot. Ho imparato a seguire persone che mi arricchiscono, esperte in un campo e non in tutti, in grado di dire pubblicamente “non lo so”, e con un equilibrio tra vita e lavoro che mi sia di ispirazione. Non ho mai amato competizione e chiasso, mi piace che non inquinino neanche le mie relazioni online.

I just give myself permission to suck. I find this hugely liberating.
– John Green
Se c’è una tendenza che si conferma, nel 2019, è che i progetti saltano per aria: questa è la vera performance. È una grande esplorazione dell’alfabeto, perché il piano B è latitante, il C è uscito a fare la spesa e il D si è dato alla macchia. Il meticoloso calendarietto editoriale pianificato per questo blog è andato a farsi benedire appena ho ripreso a lavorare, ossia a metà febbraio: per quanto avessi previsto un carico più leggero per la prima metà dell’anno, destreggiarmi tra lavoro e bambina non ha lasciato energie anche alla scrittura. Tutto si impara. Anche a informarsi per tempo su come funzionano gli asili, per dire.
Ottime novità
Il lavoro ha subito una felice impennata imprevista in maggio, con la richiesta di due nuovi corsi – Ux Writing all’interno del master in Ux Design di Talent Garden Milano e un corso di formazione sull’editoria digitale per il gruppo Maggioli – e con l’arrivo di due nuovi clienti, Fifth Beat e Zanichelli. Di conseguenza, la semi-vacanzina che avevo pensato per giugno in Sardegna dai nonni è diventata un santissimo periodo di lavoro con baby sitter gioiosi e a tempo pieno. Fossero tutti così, gli imprevisti!
Conversazioni illuminanti
Durante una delle nostre chiacchierate, Stefano Stravato di Fifth Beat mi aveva chiesto di cosa mi fossi occupata nella prima parte dell’anno. Gli ho raccontato che – oltre alla mia amatissima collaborazione con Bompiani – avevo impiegato il tempo che mi era rimasto libero dalla bambina e dal lavoro per studiare. Almeno una parte dei piani è andata per il verso giusto, insomma, ma di questo mi piacerebbe parlarvi con più calma, in un post che ho (ri)messo in calendario per settembre.
Questa chiacchierata con Stefano mi ha fatta riflettere: esitando nel rispondergli ho pensato “ecco, magari si farà l’idea che ho lavorato poco, che mi sono adagiata, che non faccio abbastanza“. Una paura, più che un pensiero, che apparteneva solo a me: fortunatamente le persone con cui lavoro sono tutte straordinarie. Ma quanto ha da dire sull’ansia da prestazione, sull’imbarazzo che ci fa sentire in dovere di giustificarci, se scegliamo di non avere ogni momento carico di grandi imprese, sulla gestione di maternità e lavoro?
Anche Maria Cristina Lavazza ha una grande parte sulla mia salute mentale. Quando mi ha chiesto come stesse andando il barcamenarsi tra lavoro e bambina, le ho risposto che in qualche modo avevo la sensazione di perdere terreno, di non riuscire a essere presente, a seguire tutto (ehi, un momento: ma tutto cosa?). Mi ha dato una risposta pacata e saggia, che mi ripeto spesso: “chi lavora bene non ha bisogno di mettersi continuamente in mostra, è il lavoro che ti trova.” E allora concentriamoci con convinzione sul lavorare bene, anzi: sempre meglio.
E adesso? Ci risentiamo tra un anno?
Spero di no! Ho steso un nuovo calendario e proverò a rispettarlo. Ripartirò con energia rinnovata, organizzando bene il tempo, e non facendomi influenzare dall’ansia da prestazione, su nessun fronte.
A settembre mi piacerebbe parlare di formazione, di lettura, di editoria digitale (ancora? ma basta!), e di nuovi progetti. Voi intanto passate buone vacanze, o comunque godetevi il vostro tempo.
PS
Arriva anche la newsletter. Siccome sono molto intelligente e in genere addirittura mi pagano per la mia abilità nel leggere e scrivere, avevo sottovalutato che Revue ha un limite di 50 iscritti, e poi si paga. Quindi ho spostato tutto su Mailchimp. Potrebbe mancare l’aggiornamento di qualche link, i primi invii forse saranno un po’ sghembi, ma ne verrò a capo. E per tutto il resto c’è la Farabegoli.

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Preambolo spiritoso
Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.
È una delle 40 regole di scrittura di Umberto Eco*: una lista ironica e utilissima di buone norme per l’uso dell’italiano. Mai come scrivendo questo post mi è stato chiaro il senso della frase da furbastri “fai come dico, non fare come faccio”: potreste ridere molto vedendo quanti consigli disattendo, tra quelli che elencherò.
Introduzione con aneddoto
Ho imparato a fare l’editor su manuali e saggi, cominciando a lavorare per Apogeo. Sono un caso fortunato: questo mestiere non è mai stato la mia ambizione. Mi è capitato di farlo e mi è piaciuto; gli autori che hanno lavorato con me dicono di averlo fatto volentieri.
Ora che lavoro come freelance capita che professionisti di vari settori mi chiedano di affiancarli quando si trovano a scrivere un libro o un lungo articolo: hanno poca dimestichezza con la scrittura, e si rendono conto di aver bisogno di una guida.
Quando mi mandano qualcosa da leggere, in genere il primo aspetto da sistemare è il progetto: complicato, se ci sono pagine e pagine già scritte. Il progetto si dovrebbe fare prima di cominciare il lavoro. Per questo ho pensato che una lista di consigli per progettare un testo possa essere utile.
Stendo la lista pensando principalmente a chi ha bisogno di scrivere per spiegare o argomentare, ma suppongo che anche chi deve raccontare possa trovarci qualcosa di utile**.

0. Il grado zero dei consigli per scrivere bene: impara a leggere (bene)
Reading, at its fundamental essence, is not about absorbing information. It’s about asking questions, looking for answers, understanding the various answers, and deciding for yourself.
How to read, Copyblogger
Il primo consiglio per scrivere bene è leggere. Se non lo fai si vede a chilometri di distanza: nella forma, nella struttura, nel linguaggio, nei contenuti. Leggere non significa accumulare libri finiti di cui in breve tempo non ricordi nulla: devi esercitarti a capire come funzionano i testi scritti bene. E quelli scritti male? Un mio maestro, in conservatorio, diceva che senza ascoltare la musica suonata male non si impara a distinguerla da quella suonata bene. Quindi serve imparare a leggere anche quelli.
1. Di cosa vuoi parlare? E a chi?
Hai rotto ogni indugio: finalmente scriverai il tuo trattato sulla patata***. Comincerai da quando gli Inca ne domesticarono un gran numero di varietà sulle Ande, e arriverai a elencare una raffinata selezione di ingredienti – per metà estinti e per metà reperibili solo nell’altro emisfero – che si accoppiano a meraviglia con questo tubero dalle mille risorse. Insomma: sei pronto a lavorare alla Britannica della Patata.

Non finirai mai di scriverla, è evidente: è un’impresa titanica di discutibile fattibilità, ma non vuoi arrenderti all’evidenza. Hai riflettuto poco su quello che vuoi scrivere, ed è fondamentale che tu lo faccia prima di cominciare. Ci sono almeno due domande che possono aiutarti. Teniamo fermo l’argomento “patata”, di cui sei un riconosciuto luminare.
- Da che punto di vista vuoi affrontare la materia? (Ricette? Storia? Botanica?)
- A chi intendi rivolgerti? (Specialisti della materia? Neofiti?)
Se riesci a rispondere con chiarezza dovresti riuscire anche a formulare una frase semplice per descrivere l’argomento che vuoi affrontare, a chi ti vuoi rivolgere e in che forma vuoi farlo. Per esempio:
Vorrei scrivere un lungo articolo per appassionati di cucina riguardo la storia della patata, per far conoscere i cambiamenti di costume che la sua diffusione ha portato nella cucina europea.
Oppure:
Vorrei scrivere un libro specifico e dettagliato sulle varietà di patata che è possibile coltivare in Italia, adatto a lettori già esperti in orticoltura.
Da queste descrizioni derivano testi molto diversi, principalmente perché sono diversi i lettori a cui sono destinati. Sarà più semplice compiere scelte di struttura, forma e linguaggio, a partire da questa riflessione; le tue decisioni saranno appropriate rispetto al pubblico che hai scelto.
2. Prepara una scaletta (o una mappa)
Ora che hai chiaro di cosa vuoi scrivere e a chi ti rivolgi puoi iniziare a mettere a fuoco la struttura. Devi preparare un piano: la sequenza di argomenti che affronterai, l’ordine che renderà il discorso comprensibile. Parlando di ordine: il testo che scriverai ne richiede uno preciso, per essere compreso? O può essere consultato a prescindere dalla linearità delle pagine, e avrai quindi bisogno di progettare una mappa delle relazioni tra i contenuti, per fare in modo che i percorsi di lettura siano chiari a chi legge?
È probabile che questa seconda ipotesi non l’avessi prevista. Eppure siamo nel 2019: ciò che scriviamo non finirà per forza in una pila di fogli stampati e incollati, lineari per definizione (a meno che tu non stia scrivendo un dizionario, te lo concedo). Il testo può trovarsi in rete o in un ambiente digitale che permette di collegare concetti in maniera non lineare attraverso i link: anche in questo caso il progetto è fondamentale.
Stendere una scaletta
Una scaletta è l’elenco gerarchico delle parti in cui intendi articolare un testo. Pensalo come un indice grezzo: i titoli non sono definitivi, serve a chiarire la struttura. La sequenza argomentativa dev’essere chiara: sapere cosa va spiegato prima e cosa dopo; cosa deve avere molto spazio e cosa può averne poco; cosa è più importante e cosa meno.
Vuoi fare una prova del nove, per capire se funziona? Falla leggere a qualcuno che potrebbe essere un tuo lettore: se rimane confuso e devi dargli spiegazioni potresti dover lavorare meglio su qualche passaggio (e i suoi dubbi potrebbero accenderti delle preziose lampadine).
La scaletta di questo post, se solo l’avessi fatta (!), avrebbe potuto essere:
- Introduzione: perché scrivere l’ennesimo post di consigli di scrittura
- Consiglio n. 1: leggere
- Consiglio n. 2: come chiarire l’argomento di cui si vuole scrivere
- Consiglio n. 3: preparare la scaletta o la mappa concettuale
-
- Cos’è una scaletta
-
- Cos’è una mappa concettuale
- Consiglio n. 4: i titoli
e così via.
Disegnare una mappa concettuale
Un’ottima maniera per tracciare le relazioni tra concetti e idee è lavorare con una mappa concettuale.
Le mappe concettuali sono uno strumento particolarmente utile per studiare le relazioni tra singoli concetti e unirle insieme in uno schema organico e completo. Le mappe concettuali si possono utilizzare efficacemente per studiare qualsiasi argomento e a qualsiasi livello: dalla scuola primaria all’università, alla formazione professionale.
Mappe concettuali: cosa sono e come si creano, Portalebambini.it

Applicare le mappe concettuali alla progettazione di un testo, anzi che all’apprendimento, può essere un esercizio eccellente per capire quali relazioni tra contenuti sono più forti, quali vale la pena di mettere meglio in risalto, quali invece sono più deboli del previsto e possono essere trascurate.
Nella sezione “Quaderni” del blog di Luisa Carrada (che dovresti avere tra le tue letture, se ti interessa scrivere), trovi un lungo approfondimento dedicato proprio a mappe mentali e scrittura, curato da Umberto Santucci.
3. Non partire dai titoli
Sembra essere una tentazione invincibile, quella di dedicarsi ai titoli prima dei contenuti. Eppure sono una delle ultime cose che si dovrebbe rifinire, quando il contenuto è stabile e possiamo sintetizzarne con certezza le parti da mettere in evidenza.
In effetti: a cosa serve un titolo? Una descrizione utile, per le scritture che mirano a spiegare e argomentare, è quella giornalistica di Stefano Ondelli in La “messa in scena” delle notizie nei titoli dei quotidiani. Una prospettiva linguistica (1996):
Un titolo ha dei requisiti fondamentali da rispettare, in primo luogo
quello di veicolare la massima quantità di informazioni nel minor
spazio possibile.
Titoli scritti seguendo questo criterio dovrebbero mettere in condizioni chi legge di farsi un’idea molto chiara dell’articolazione del discorso che il testo porta avanti. Anche il tono dei titoli dipende dal lettore a cui ci rivolgiamo, e al taglio generale del testo: si tratta di un qualcosa di divulgativo e leggero o di un testo per specialisti? Nel primo caso, per parlare di un capitolo dedicato alle origini delle nostre amate patate, potremmo dire:
La patata: un viaggio inaspettato
per evocare la lunga storia del tubero arrivato in Europa da lontano.
Nel secondo caso potremmo dire, per introdurre lo stesso argomento:
Dal Solanum tuberosum alla patata: le origini andine del tubero dalla coltivazione versatile
Qualcosa non quadra? Certo: il secondo titolo mette in mostra la mia scarsa disinvoltura con la botanica. Solo scriverne una versione che potesse scimmiottare a orecchio qualcosa di specialistico mi ha portato via dieci minuti, e il risultato è discutibile.
Tra i preziosissimi quaderni raccolti da Luisa Carrada ce n’è uno dedicato ai titoli: Sigilli di parole, ovvero l’arte di titolare, curato da Francesca Pacini. Una lettura preziosa, con diversi esercizi da praticare subito.
4. Non farti intimidire dall’attacco

L’ansia del foglio bianco ci fa venire la tentazione di cominciare dai titoli; la stessa affligge anche le prime pagine di un nuovo testo. Ore a mordicchiare matite, penne (non tastiere, almeno spero!), per trovare una frase fulminante con cui cominciare, come ogni stereotipo sulla scrittura ci insegna. L’illuminazione non arriva, non c’è niente da fare.
Comincia senza indugio, anche se quello che scrivi non ti soddisfa, e rassegnati a una grande verità: l’attacco, quelle prime pagine, le riscriverai mille volte. Sempre meglio, ma solo quando avrai già scritto parecchio, scaldandoti dita e idee. Eliminando arzigogoli e divagazioni che ti hanno permesso di rompere il ghiaccio arriverai a un incipit convincente.
5. Ragiona sul linguaggio
Se il tuo obiettivo è spiegare qualcosa a qualcuno bisogna che usi un linguaggio comprensibile, direbbe Jacques de La Palice. Non a caso si dice “spiegamelo come se avessi cinque anni”: per quanto colto, un bambino di cinque anni ha una padronanza lessicale ridotta, ma non significa che sia stupido.
Stiamo parlando di leggibilità, ossia di quanto è facile per chi legge capire il contenuto del testo. Nelle linee guida per i contenuti del governo australiano si consiglia di considerare le competenze di un bambino di 9 anni, età in cui in genere si acquisisce l’abilità di leggere riconoscendo la forma delle parole, anzi che leggerle per intero, aumentando così la velocità di comprensione di un testo.
Content with a good readability level helps users know what to do. This includes users with lower comprehension skills.
Aim to make content as readable as possible. This makes it more accessible for everyone, not only users with low literacy. Plain English helps specialist and technical audiences too.
Writing Style, GOV.AU Content Guide, Readability
Scrivere testi comprensibili non significa rinunciare a un pubblico di specialisti. Ricerche attendibili hanno dimostrato che anche persone con alti livelli di competenza preferiscono il plain language, perché gli permette di capire più velocemente le informazioni contenute in testi specialistici, come spiegano nella Content Guide di gov.uk.
Il fulcro della complessità del linguaggio amministrativo risiede nella complessità morfo-sintattica. I testi burocratici presentano una costruzione sintattica molto elaborata, che porta alla produzione di frasi lunghe e con un ampio e ramificato uso della subordinazione. In particolare, si nota la frequente tendenza, derivata dalla testualità giuridica, alla “frase unica”, cioè alla produzione di testi nei quali l’intero contenuto è condensato in una sola frase (o comunque la tendenza a far coincidere il capoverso con la frase)
Michele Cortelazzo, Il burocratese, Treccani
Questa complessità non affligge solo i documenti burocratici: pensate a certi testi letti all’università, in cui riuscire a trovare la frase principale in un intrico di subordinate era un’impresa per speleologi. Qualcuno lo avrà già chiamato “accademichese”?
Per capire come usare un linguaggio chiaro e comprensibile le guide di cui si stanno attrezzando sempre più pubbliche amministrazioni sono molto utili: se ci si può riuscire in quell’ambito anche il nostro straordinario trattato sulla patata dovrà uscirne vincitore.
Tutto qui?
Tutto qui, sì. Questi cinque punti (più uno) sono alla base di una buona scrittura. Sono il progetto e le fondamenta che semplificheranno il resto del lavoro. Se questa parte è debole lo sarà anche tutto il resto.
Hai bisogno di scrivere un testo e credi che un aiuto professionale possa esserti utile? Contattami: vediamo se possiamo lavorare insieme.
Libri e articoli
Se preferisci, per i libri, c’è la lista collaborativa su Goodreads
- Luca Serianni, Leggere, scrivere, argomentare. Prove ragionate di scrittura, Editori Laterza (2014) [Sul sito dell’editore si può leggere tutta l’introduzione]
- Luisa Carrada, Il mestiere di scrivere. Le parole al lavoro, tra carta e web, Apogeo Education (2008)
- Valentina Falcinelli, Testi che parlano. Il tono di voce nei testi aziendali, Franco Cesati Editore (2018)
- Mariuccia Teroni, Manuale di redazione, Apogeo (2007)
- Daniele Fortis, La guerra al burocratese: un cammino incompiuto (su ilmestierediscrivere.com)
- Daniele Fortis, Il Plain Language: quando le istituzioni si fanno capire (I quaderni de Il mestiere di scrivere)
NOTE
*Umberto Eco, La bustina di Minerva, Bompiani (2000)
**Non mi sono mai trovata a mio agio a fare l’editor per la narrativa. Sarà stato l’imprinting della manualistica, chissà.
***Mentre scrivo questo post, ovviamente, ho fame.

tl;dr: Sapersi concentrare è un esercizio, lo è stato in ogni epoca. Ti propongo qualche metodo per riuscirci anche nella nostra.
«La concentrazione è un’arte la cui difficoltà sta nel dover conciliare costantemente la dissonanza tra se stessi e il mondo»: leggo queste parole nella newsletter di Brain Pickings che recupera un articolo del 2016 sulle idee della poetessa americana Mary Oliver (mancata proprio in questi giorni) riguardo tempo, concentrazione e altro intorno alla creatività. Racconta anche che già Eugène Delacroix si lamentava della necessità tormentata di allontanarsi dalla vita sociale per mantenere la propria carriera creativa, ricordandoci che le difficoltà nel concentrarsi non sono nate nella nostra epoca.
Tornando a Mary Oliver: secondo la poetessa ciò che interrompe la nostra attenzione non proviene solo dall’esterno. Sono ben tre gli “io” interiori capaci di distrarci con irresistibile efficacia. Lo racconta in questo modo*.
It is a silver morning like any other. I am at my desk. Then the phone rings, or someone raps at the door. I am deep in the machinery of my wits. Reluctantly I rise, I answer the phone or I open the door. And the thought which I had in hand, or almost in hand, is gone. Creative work needs solitude. It needs concentration, without interruptions. It needs the whole sky to fly in, and no eye watching until it comes to that certainty which it aspires to, but does not necessarily have at once. Privacy, then. A place apart — to pace, to chew pencils, to scribble and erase and scribble again.
But just as often, if not more often, the interruption comes not from another but from the self itself, or some other self within the self, that whistles and pounds upon the door panels and tosses itself, splashing, into the pond of meditation. And what does it have to say? That you must phone the dentist, that you are out of mustard, that your uncle Stanley’s birthday is two weeks hence. You react, of course. Then you return to your work, only to find that the imps of idea have fled back into the mist.
Un’idea interessante proprio se pensiamo alla contemporaneità, in cui la colpa della nostra distrazione ricade sempre su questi strani strumenti del demonio oggetti, le nuove tecnologie, colpevoli di invadere il tempo che altrimenti dedicheremmo per certo a nobili scopi, come la lettura in lingua originale di “Guerra e pace”, minuziose visite ai musei, il confronto meditato di almeno tre esecuzioni integrali de “L’anello del Nibelungo”.
Vi siete sorbiti questo preambolo perché mi fa piacere raccontarvi in che modo una freelance procastrinatrice e perdigiorno – ora beffata dall’essere anche madre e obbligata a mettersi in riga – riesce a:
- pensare a cosa c’è da fare su più fronti (figlia-casa-lavoro-se stessa);
- dare un ordine alle cose che ha pensato di fare;
- farle, per giunta.
La prima parte del trucco è che due fronti (figlia-casa) sono un lavoro di squadra: entra nell’equazione l’elemento “marito”. La seconda parte è un mix perfetto, per me: mettete in pentola uno smartwatch, delle notifiche al momento e al posto giusto, quaderni e penne colorate a volontà. Ora vi dico come li mescolo.
Aiutare la concentrazione gestendo meglio le notifiche

Questo Natale mi sono voluta levare un capriccio e ho comprato l’Apple Watch. Ho ignorato tutte le sirene del “ma che te ne fai!”, “mica sei così sportiva!”, “è un altro coso inutile che divorerà la tua attenzione!” e lo indosso dall’inizio di dicembre. Ho trascorso gran parte del tempo uscendo poco di casa, tra il rimettermi dalla gravidanza, il freddo e la bambina appena nata: se è vero che mi sembra ancora di sfruttarlo poco, mi sono già resa conto di alcuni benefici.
Uso molto meno il telefono
Su iOS 12 c’è una funzione che monitora il tempo di utilizzo dello smartphone: a quanto pare da quando ho l’Apple Watch questo tempo si è ridotto da 5 ore al giorno a circa 3 e mezzo. Com’è possibile? Avete presente quando prendete in mano il telefono per controllare un messaggio appena arrivato e vedete l’icona di un’altra app che vi distrae? Finite per aprire quella, ci passate un quarto d’ora e poggiate il telefono senza aver letto il messaggio, dimenticandovene. Poi vi torna in mente, e il ciclo riparte da capo. Un quarto d’ora per volta si perde un sacco di tempo.
Lo smartwatch mi ha permesso di far sparire tantissime di queste digressioni, se vogliamo chiamarle così. Se ricevo un messaggio distinguo già dal tipo di vibrazione dell’orologio su che app di messaggistica è arrivato; so – in base al mio modo di utilizzarle – quanto è urgente (Whatsapp in genere lo è più di Messenger, per esempio); un movimento del polso mi permette di leggere buona parte del messaggio già dalla schermata dell’orologio anche mentre sto cambiando un pannolino e non posso allontanarmi dalla bambina: se è mio marito che dice “apri, sono senza chiavi” me ne occupo subito, altrimenti si tratta di qualcosa che può aspettare. Per gran parte della giornata il telefono non so nemmeno dove sia.
Una migliore gestione delle notifiche
Il rischio di essere ancora più schiava delle notifiche per il momento non si è rivelato reale, anzi: avere al polso un oggetto davvero utile solo se sono gestite con più intelligenza mi ha portata a riflettere anche su come uso quelle sullo smartphone. Da almeno cinque anni, a causa del mio lavoro chiassoso proprio in termini di notifiche, avevo già ridotto al minimo le app autorizzate a inviarne, anche a livello personale.
Le ho completamente bloccate su Facebook e Instagram; sono attive solo con il contatore sull’app per Twitter; ho un solo indirizzo mail abilitato al download automatico ogni quarto d’ora (e al conseguente avviso). Insomma: il mio telefono da tempo è già discretamente a prova di disturbo. La distrazione è già alta per la sola presenza delle app dei social network: in questo modo ho qualche chance in più di decidere io quando aprirle, senza aggiungere la sollecitazione del pallino rosso da azzerare.
Liste potenziate per smemorati: il bullet journal

Sono la tipica persona con la scrivania disordinata e appunti ordinatissimi: funziono così fin dai tempi di scuola. Ho fatto due scuole contemporaneamente (il liceo classico e il conservatorio), il ché mi ha dato una certa abilità nel barcamenarmi tra scadenze e priorità, imparando a scegliere anche cosa sacrificare. Quando ho cominciato a lavorare ho fatto un passo in più: se fossi riuscita a trovare lo strumento giusto per liberare più spazio mentale possibile da un certo tipo di informazioni potevo dedicarlo a pensieri più complessi e lavorare ancora meglio.
Perché occupare spazio in memoria (intendo quella della mia testa, decisamente limitata) per ricordarmi della riunione di giovedì alle 15? Quello che mi serve è una notifica che mi avvisi martedì alle 10 che devo preparare un certo documento per la riunione di giovedì alle 15, che un’altra notifica mi ricorderà giovedì alle 13. Mi serve questa notifica solo sul computer dell’ufficio, non sul mio telefono personale, da cui, quando lavoravo come dipendente, tenevo fuori il più possibile i messaggi lavorativi fuori orario**.
Il (non)metodo che non funzionava erano gli appunti sparsi in mille foglietti, post-it, quaderni lasciati a metà: di quegli appunti, in ufficio, non riuscivo mai a mettere a frutto niente. Figuriamoci se riuscivo a esaurire improbabili liste chilometriche di cose da fare. Ora che lavoro da casa sono riuscita a trovare un sistema molto efficace per tenere traccia di idee e appuntamenti, che siano personali o professionali.
Per fare bene una lista bisogna saper stabilire le priorità

Il problema delle liste di cose da fare è che ci vuole un buon metodo nel farle. Pensate alla freelance procrastinatrice che rimanda al giorno dopo 3 attività importanti, 5 urgenti e comincia dall’ultima cosa che dovrebbe fare perché è quella che le viene meno a noia. Non può funzionare.
Confesso subito: non sono nemmeno lontanamente scientifica nell’applicazione di metodi come quello Eisenhower. Anche solo vedere la matrice, però, aiuta a pensare le attività secondo un criterio e a stabilire come pianificare le prossime azioni. Il quadrante “non urgente – non importante”, per esempio, nel mio caso non sempre contiene qualcosa da non fare categoricamente, né per forza da delegare: magari contiene “giocare 2 ore a The Last of us“, attività che di certo non intendo delegare, ma che non posso nemmeno inserire tra le cosa da fare con urgenza o prossimamente. Purtroppo.
Il punto è sgombrare la mente dallo sforzo di ricordare una lista di cose da fare, ciascuna con tempi e date precise, priva di criterio, oltretutto. Appuntarle in un elenco ragionato ci evita di sentirci costantemente in sovraccarico, in urgenza perenne, e con in testa fissa la domanda “avrò chiuso il gas?”.
Il metodo bullet journal

Il bullet journal è un sistema su carta creato da Ryder Carroll, un designer americano. Carroll dice che il bullet journal serve “per aiutarci a tenere traccia del passato, organizzare il presente e pianificare il futuro”, ma non pensate a un diario. È più un sistema rapido per prendere note su qualunque argomento o cosa da fare: non ha limiti di tema né di struttura. È un metodo flessibile per gestire e organizzare idee e azioni in liste.
Il bullet journal per lavorare
Preferisco tenere separato il dettaglio delle attività lavorative dalle cose personali, quindi ho un quaderno a parte per organizzarle. O meglio: tendo ad avere un quaderno per cliente. Follia? No: è adatto al mio modo di lavorare con pochi clienti di lungo periodo, auspicabilmente almeno un anno. Se immagino che un cliente non avrà bisogno di un intero quaderno rispolvero il vecchio metodo della scuola elementare: da un lato lo uso per un cliente, quando serve capovolgo il quaderno e dall’altro lato uso le pagine finali per un altro.
Su questi quaderni ho in genere 5 tipi di liste:
- l’impostazione generale del progetto, con le scadenze principali;
- le scalette dei documenti che ho previsto di rilasciare nel corso del progetto;
- le scalette per le riunioni;
- la lista di cose da fare il giorno dopo, che compilo nel corso della giornata con dei limiti in termini di quantità;
- spazio per valutare nuove idee fuori progetto.
Sono quaderni disordinati nella forma, ma non nella sostanza: non faccio caso alla penna che uso, a una bella grafia, a cancellature e allineamenti imprecisi. Mi servono per essere efficiente, non perché siano belli da vedere. L’unica lista in cui bado all’ordine è quella delle cose da fare il giorno dopo: scriverla con più calma mi aiuta a ripensare alla giornata lavorativa e a organizzare con criterio le priorità.
La giornata di lavoro successiva inizia sempre dalla lista di cose previste per la giornata: esaurisco subito le più veloci (mandare la mail a tizio, programmare un contenuto se ho tutto il necessario a disposizione), poi passo alle cose che richiedono più riflessione o la collaborazione di altri colleghi. Se tutto ha funzionato bene rimane anche il tempo di anticipare qualcosa di previsto per i giorni successivi.
Avendo la fortuna di lavorare con persone più che piacevoli con cui parlare, in genere fisso riunioni e telefonate nel dopo pranzo (e in ogni caso con parsimonia, per rispetto verso il tempo di tutti). Può sembrare una cosa tremenda, la riunione del dopo pranzo, ma nell’organizzazione della mia giornata è un buon momento: dopo la concentrazione della mattina che interrompo con un’attività pratica come preparare il pranzo (e consumarlo con calma!), mi fa piacere riprendere il lavoro in modo “sociale”. È importante curare anche questa dimensione, specialmente lavorando da casa.
Il mio bullet journal personale
Il bullet journal in cui gestisco scadenze e attività personali è tutto un altro campionato. Decisamente frou-frou, è il mio spazio per rallentare, riflettere bene sui punti della matrice, selezionando ciò che ritengo davvero importante nella sfera più importante di tutte: quella personale, appunto. Per me stessa, per esempio, viene prima trovare il tempo per leggere o per andare in piscina? E come si concilia questa scelta apparentemente irrilevante con il tempo da dedicare a mia figlia? In che modo posso farmi aiutare da mio marito e aiutare lui, in base all’organizzazione delle sue giornate?
In questo quaderno mi piace usare una bella penna, scegliere abbinamenti di colori, dedicare spazio a obiettivi di lungo periodo per migliorare le mie giornate senza scadenze pressanti. Per esempio: l’obiettivo di leggere qualcosa tutti i giorni non è né urgente né importante, se la vogliamo dire con il metodo Eisenhower, ma mi aiuta a conservare un poco di spazio per fare qualcosa che amo molto e che proprio per questa ragione spesso tendo a sacrificare. Magari il mese prossimo potrei scegliere l’obiettivo di ascoltare una nuova sinfonia al giorno.
Perché sento il bisogno di tracciare e pianificare cose del genere? Per ricordarmi che anche la qualità della vita, le cose belle e che ci piacciono, hanno bisogno di un loro spazio. Magari piccolo, senz’altro curato: l’importante è che esista. Mi fa stare meglio e mi ricorda cos’è che dà senso a tutto il resto.

I bullet journal e le notifiche
Assolta la parte naïf, veniamo al concreto. Ho sempre avuto un problema con le agende di carta, che nemmeno il bullet journal risolve: mi serve un’agenda per ricordarmi di controllare l’agenda. Ma qui tornano in gioco le nostre notifiche! Uso tre applicazioni per semplificarmi la vita. Può sembrare assurdo (tre applicazioni per semplificare la vita?!), forse lo è, ma per me questa combinazione di carta e digitale è vincente. Oltre alle app, faccio un larghissimo uso di sveglie e timer: vi dico come.
Versatile su qualunque dispositivo, permette di creare liste (con sottoliste!) di cose da fare – o task, se volete fare gli americani – dandogli una scadenza e impostando anche una data diversa per il promemoria, se occorre. Le liste possono essere raggruppate per categorie e condivise. Deposito qui le scadenze che non amo avere sul calendario, perché sono le tipiche cose che potrei aver bisogno di rimandare ma che ho bisogno di avere sotto gli occhi.
Qui tengo liste di piccole azioni (“fai la lettura del gas”, “prenota l’appuntamento dal pediatra”) o promemoria distanti nel tempo (“manda la fattura a fine mese”), in modo da non ridurmi all’ultimo minuto a dover trovare il tempo per farle. Wunderlist, per esempio, è un ottimo alleato per gestire le scadenze legate alla contabilità e all’amministrazione della libera professione.
Scelta un po’ per caso, è un’app essenziale (e pure un po’ bruttina) per fare liste condivise. Ne esistono senz’altro di migliori e più specifiche, ma per me e il marito è buona abbastanza per segnarci la lista della spesa, così che chi si trova a portata di supermercato può provvedere senza brancolare nel buio. Ok, diciamoci la verità, lui provvede, io compilo. Ok, anche lui compila. Ok, menomale il marito fa la spesa, se no qui ordineremmo pizza ogni sera.
È dove segno gli appuntamenti: visite mediche, riunioni, cene o incontri con amici. Tutto ciò che può implicare un’uscita da casa e un ingombro di tempo di qualche ora. Sono una talebana delle impostazioni di notifica: cambio sempre quelle di default eliminando l’invio dell’email e lasciando due notifiche, una qualche giorno prima e una qualche ora prima, a seconda di quanto è lontano il posto da raggiungere. Google Calendar ovviamente è prezioso anche per la possibilità di aggiungere invitati e dettagli all’evento: per tutto ciò che riguarda la bambina è utilissimo (quante volte voi dimenticate di dire a compagni e compagne di aver preso l’appuntamento in data tale, se dovete andarci insieme?).
Sveglie e Timer
Ci sono poi delle attività spicciole per cui il tempismo è tutto. Ho appena infornato la torta? Zac! Timer di 25 minuti. Nel frattempo posso stendere i panni e mandare una mail (e spuntare una voce dalla lista delle attività del giorno). Meglio di pomodoro! Ma se nel frattempo preparo anche un tè? Sicuro che me lo scordo, e che trovo una tazza gelida e nera come il petrolio. Per questo ho stappato una bottiglia (di acqua minerale) quando ho scoperto MultiTimer. Avvio tutti i timer che servono e ciascuno ha anche il suo nome, casomai mi fossi scordata perché l’avevo impostato.
La cura di me: sport e meditazione

Nel 2014 avevo cominciato a nuotare almeno tre volte a settimana, e l’ho fatto per un paio d’anni di fila. Avevo scelto questa attività anche perché in acqua si deve necessariamente stare lontani dal telefono, e sentivo un grande bisogno di impormi questo distacco e mantenerlo per almeno qualche ora. Che si trattasse di FOMO o solo di rimbambimento, la terapia è servita: ho realizzato che il mondo era ancora fuori e tutto intero anche se non rispondevo a un messaggio in pochi minuti.
In piscina uso un vecchio Garmin Swim, meravigliosamente offline, ma in grado di darmi la soddisfazione di vedere quantificato quanto sono schiappa come progredisco nel nuoto. L’app di Garmin, migliorata negli ultimi tempi, può trasmettere le informazioni anche alla centralina “Attività” di Apple: abbastanza brutta, ma utile da vedere a colpo d’occhio sullo smartwatch.
Meditazione, per una persona poco spirituale come me, è un modo sintetico per dire “mi prendo 10 minuti di silenzio per respirare come si deve e pensare alle cose che mi fanno affrontare bene la giornata”. La respirazione è la chiave del rilassamento e della concentrazione: anni di musica e strumenti a fiato me l’hanno insegnato più che bene.
Ci sono un paio di app che trovo interessanti: la mia preferita è Calm, che ho usato molto lo scorso anno; quest’anno sto provando Headspace, anche se non mi ci sto affezionando più di tanto. Forse ha ragione chi dice che si soffra di una sorta di imprinting da paperette: la prima voce che guida la meditazione è quella che riusciamo a seguire meglio, e cambiare app non è facile.
Imparare a concentrarsi sul respiro e ad ascoltare il proprio corpo è un esercizio utilissimo e solo in apparenza banale. Insegna a ignorare gentilmente gli “io” disturbatori di cui parlava Mary Oliver all’inizio di questo post, e a concedergli spazio solo quando è il loro turno. Sapersi concentrare è uno sforzo, lo è stato in ogni epoca. È importante che troviamo un modo per farlo anche nella nostra.
Note
*La citazione viene da The Third Self: Mary Oliver on Time, Concentration, the Artist’s Task, and the Central Commitment of the Creative Life in cui trovate i riferimenti bibliografici e il resto del ragionamento condotto da Maria Popova.
**Non sono mai stata vittima del pessimo costume – molto italiano – di rendersi (o fingersi?) presenti 24 ore su 24 per qualunque capriccio di capi e colleghi.

tl;dr: nel 2018 ho cominciato a fare la freelance, ho cambiato città e ho avuto una bambina. Qui racconto come sono uscita viva da quest’anno bizzarro ed entusiasmante.
Il 2018 è stato l’anno dei grandi piani riusciti e di quelli piccoli saltati per aria. Per esempio: ho in bozza questo post da mesi, addirittura da ottobre, leggo nella data dell’ultimo salvataggio. Comincio a fare la freelance per bene – mi chiedo – e parlo di organizzazione, di progetti, di lavoro? Elenco letture, snocciolo consigli? Curo il mio personal brand, come dicono di fare quelli bravi? La verità è che non ho saggezza da condividere, e tanti aspetti del mio nuovo modo di lavorare sono ancora affidati all’abilità nell’improvvisazione, come fosse jazz: un caos lucido e governabile, ma per me non ideale. È una delle cose da sistemare in questo 2019.
Non ho mai avuto lo spirito da blog personale, ma non credo sia possibile raccontare com’è andato questo primo anno da freelance senza parlare dei cambiamenti anche in quella sfera. La scelta di diventare freelance non è stata dettata solo da ragioni professionali, e credo che parlare del modo in cui cambia il ritmo della vita, tutta, senza compartimenti stagni, sia più rispondente al vero e più utile, spero, a chi sta considerando una scelta simile.
A febbraio mi sono trasferita a Firenze, dove mio marito lavora, e ho cercato di costruire qui la nuova routine delle mie giornate. Il 2018 è un intreccio di pranzi da preparare tutti i giorni – non pranzavo a casa tutti i giorni dai tempi del liceo – e riunioni a distanza con i miei clienti perché, almeno finché i conti tornano, è questo lo stile di vita che mi calza meglio. Del resto una delle ragioni che mi ha spinta a smettere di buttare le giornate in (brutti e malsani) uffici è la ricerca di più spazio per la quotidianità: lavorare idealmente meno, sicuramente meglio; lavorare per vivere e non viceversa, per affidarsi a solidi luoghi comuni.
Quando sei concentrata a fare qualcos’altro la vita ti rotola addosso: ero lì che cercavo di ritrovare il ritmo delle mie abitudini in una nuova città partendo da un abbonamento in piscina, e intorno a metà marzo comincio a sentirmi molto stanca, infinitamente stanca, decisamente troppo stanca. Faccio delle analisi e… sono incinta.
AAAAH!
Be’, sì, la reazione è stata più o meno questa. Ci sono già troppe rivoluzioni in corso, ce la posso fare? Ce la posso fare, naturalmente, prima di tutto perché non è un “posso” ma un “POSSIAMO”, e fa una grande differenza. Gli astri di tempi e scadenze si allineano per il verso giusto, impariamo ad apprezzare la riuscita dei piani e non la loro perfezione e grazie alla buona salute, per fortuna, tutto va per il meglio. E questa è la premessa.
SU COSA HO LAVORATO NEL 2018
Il Team per la Trasformazione Digitale
Dopo la luna resa ancora più di miele dall’aver dato le dimissioni prima di partire per l’Australia, a gennaio sono tornata a Milano per preparare un trasloco e buttarmi a capofitto sulla collaborazione con il Team per la Trasformazione Digitale, già avviata durante l’estate 2017 e alla quale avevo un enorme desiderio di dedicarmi con la massima attenzione, sapendo che la collaborazione sarebbe scaduta a settembre 2018, senza rinnovi.
All’interno di Designers Italia mi sono occupata di leggere, scrivere e aiutare a scrivere: uno dei miei tre soliti mestieri*, insomma. Abbiamo scelto un’impostazione per le linee guida, ci abbiamo lavorato e abbiamo capito che non funzionavano come avremmo voluto. Abbiamo ricominciato da capo e questo ci ha portati ai design kit: non sono vincolati a chi si occupa di pubblica amministrazione, sono al servizio di tutti. Avete dei progetti da avviare? Provate a vedere se vi tornano utili. Se avete osservazioni e proposte, poi, il Team è pronto ad accoglierle.
La collaborazione con il Team è stata un bello sprint che mi ha ricordato come si può lavorare negli anni in cui viviamo, gestendo con intelligenza la tecnologia a disposizione, usandola per semplificare la vita di tutti. Ne vado molto fiera.
L’editoria: Bompiani
Pochi giorni prima di partire definitivamente per Firenze ho ricevuto la notizia che aspettavo da tempo: riprendevo a collaborare con Bompiani per tutto ciò che riguarda il digitale in casa editrice, eccetto gli eBook, se non relativamente al marketing. Un rapporto lavorativo che si era interrotto per poco meno di un anno, dall’acquisizione da parte di Giunti alle mie dimissioni: si può dire che gioco in casa.
“Casa” è la parola giusta: l’aspetto più importante di questa relazione, per me, è la relazione stessa. Tornare a lavorare in una squadra di cui ho completa stima, umana e professionale; ritrovare rispetto, soddisfazione ed energia. Per tutti questi valori Bompiani è ora – e spero rimarrà a lungo – il cliente a cui dedico più spazio: avvantaggiata da un’esperienza di cinque anni da dipendente, che facilita il lavoro da remoto, scelgo di puntare una grossa parte del mio tempo da freelance su un lavoro sicuramente gratificante. Per un libero professionista può essere una scelta rischiosa: ho trovato utili le parole di Daniela Scapoli al Freelance Camp sul tema del cliente fisso.
L’insegnamento
Nel 2018 ho continuato a insegnare. Ci sono stati i miei appuntamenti fissi con il Master in Comunicazione della Scienza alla SISSA di Trieste – dove faccio un piccolo intervento sull’editoria digitale all’interno del corso in editoria – e con i corsi di minimum lab sulla comunicazione. È stato il primo anno, invece, per il corso di editoria digitale all’interno del Master in Editoria dell’Università di Verona: da tempo non tenevo un corso così lungo per così tanti studenti, dai quali sono sempre io a imparare di più. È la ragione per cui accetto ogni volta che è possibile questo tipo di occasioni.
La maternità
Dopo il primo trimestre di gravidanza ho iniziato a riflettere su come intendevo gestire la maternità, con il supporto di ACTA e della mia commercialista per la burocrazia, di mio marito per tutto il resto. Liberarsi delle pressioni sociali è molto meno semplice di quanto sembri, anche per la donna più lucida ed emancipata – che evidentemente non sono io, dato che mi sono trovata intrappolata in tutti i sensi di inadeguatezza da manuale.
Il termine della gravidanza cadeva a metà novembre, e questo ha facilitato la gestione del periodo di sospensione del lavoro: ho deciso di fermarmi per almeno tre mesi, complice non indifferente l’eleganza e l’umanità dei miei clienti già attivi e di quelli con cui iniziavo a pianificare il 2019. Non ho studiato ogni dettaglio bene come raccontava Donata, e infatti vi racconto le cose a posteriori: ho lavorato fino all’inizio di novembre, quando ho dovuto necessariamente smettere, a nono mese inoltrato. Con il senno di poi lo farei almeno un mese prima della data prevista per il parto: concedermi più tempo per realizzare che stavo per diventare mamma credo mi avrebbe aiutata a sentirmi meno sotto pressione, e anche meno stanca.
COSA FARÒ NEL 2019
La fine del 2018 è stata interamente dedicata alla famiglia, a capire come riorganizzare il tempo, le esigenze e a immaginare come organizzare l’anno successivo, un semestre per volta. Ho scelto di avere una mole di lavoro più leggera per l’inizio del 2019, per potermi occupare della bambina: la scelta di sacrificare qualche entrata ha come altra faccia della medaglia il non dover destinare una cifra a qualcuno che badi a lei al nostro posto. In questo momento rispecchia anche il mio desiderio di prendermi cura di lei di persona: non avrei scommesso, se me lo avessero chiesto mentre ero ancora incinta, che mi sarei trovata tanto a mio agio. Il capitolo delle cose che le madri o future tali non possono dire, sentire o pensare è così ampio, però, che andrebbe discusso a parte.
Per il primo semestre dell’anno concilierò quindi due clienti con la cura della bambina e della mia famiglia: Bompiani, naturalmente, e la neonata casa editrice della UX University, nuova collaborazione di cui vado molto fiera. Le case editrici che nascono sono sempre divertenti: il lavoro è tanto, l’entusiasmo anche, e qui si tratta di professionisti di grande spessore, che è un piacere aiutare a progettare e pianificare la loro nuova anima editoriale.
Intendo dedicare più tempo allo studio: scegliendo corsi di aggiornamento per il mio lavoro e corsi per ampliare gli orizzonti o arricchire lo spirito. Per i primi riservo un budget, per i secondi sfrutto le tantissime risorse gratuite in rete. Ultimamente mi sto godendo un corso sui generi letterari nella letteratura per ragazzi**, su iTunes U: mi sta facendo scoprire universi incredibili sulla letteratura per ragazzi australiana.
SETTE COSE CHE HO IMPARATO NEL 2018
Non sarebbe un post di inizio / fine anno senza una lista di questo genere, vi pare?
1. L’unione fa la forza: sempre. Senza mio marito mi avrebbero ricoverata con una camicia bianca stretta stretta già ai primi mesi di gravidanza; senza le mie amiche – casualmente incinte nel mio stesso periodo – avrei pensato di essere l’unica donna al mondo a porsi domande che tutte le donne si sono già poste; senza le mie amiche mamme e freelance avrei impiegato molto più tempo per venire a capo di problemi intricati ma non irrisolvibili come sembravano.
2. Trova un bravo commercialista: la mia è eccezionale, disponibile, preparatissima e veloce. Le piacciono anche i gatti e i mug, davvero non saprei cosa chiedere di più. Mi fa dormire sonni tranquilli, spiegandomi cose complesse e risolvendo problemi che altrimenti mi ruberebbero tempo e serenità.
3. Se aspetti un bambino, circondati di mamme normali. Uno dei miei terrori prima di frequentare il corso preparto alla ASL, per esempio, era: e se trovo la mamma no-vax? Quella integralista vegana? Quella che azzera la sua esistenza per i figli e ti guarda come se fossi snaturata se fai diversamente? Siate pronte a farvi stupire in bene. Credo di avere l’unico gruppo su whatsapp dal nome “MAMME” di cui non aver paura, anzi: è una vera rete di supporto tra persone che affrontano le stesse difficoltà, fisiche e psicologiche, e si danno una mano di cuore. Il ché rafforza il punto 1.
4. Diffida da chi si spaccia per wonder woman. Io le vedo le mamme freelance che prendono dieci aerei al mese con un neonato di 45 giorni, che raccontano di non rinunciare a niente, mai, e hanno anche 38 ore al giorno da passare concentratissime solo sul loro bambino (oltre ovviamente ad occuparsi solo di progetti epocali e fatturati astronomici). Vedo anche quelle senza figli con giornate che iniziano alle 6 con un’ora di yoga e finiscono alle 2 del mattino con un cocktail e una messa in piega ancora impeccabile. Che mentano o no, non mi interessa. Non sono modelli a cui aspiro, le trovo grottesche e frustranti. I miei modelli sono dubbiosi, curiosi, lontani dall’onniscienza, sbagliano e non temono di mostrarsi imperfette. Sono bellissime così.
5. Mantieni viva la curiosità, e se puoi ampliala. Non occuparti solo delle novità o degli approfondimenti del tuo settore, qualunque sia. Spendi tempo in cose che ti arricchiscono: oltre a non essere mai tempo perso, spesso aiutano a risolvere problemi attraverso strade che altrimenti non avresti saputo immaginare.
6. Fai qualcosa di pratico. Aiuta a pensare. Per esempio: mentre stiro o pelo le patate trovo soluzioni a problemi da risolvere, o ricostruisco il filo logico tra stimoli sparsi, collezionati in altri momenti della giornata (e mi ritrovo casa in ordine e pranzo pronto!). Mentre nuoto, invece, riesco a far maturare delle idee che a volte non sapevo nemmeno di avere. Ad altri capita lavandosi i denti o sotto la doccia: fate delle prove.
7. I tempi morti sono vivissimi. Ho scoperto che leggere mentre do il biberon (5-7 volte al giorno per 20 minuti) a mia figlia è una mossa astuta: lei mangia e della mia esistenza le interessa poco, in quel frangente; io ho letto 7 libri in poco più di un mese, solo per aver usato in modo astuto quest’intervallo di tempo. Certo, prima o poi inizierà a mangiare diversamente, ma intanto… sono diventata una fanatica dei tempi morti! Rubacchiare 5 minuti qua e là per fare una cosa in attesa che ne capiti un’altra può suonare stressante. A me, per ora, sta aprendo mondi entusiasmanti. Trovate i vostri tempi morti e arredateli.
COSA VORREI PER IL 2019 COSA MI IMPEGNERÒ A REALIZZARE NEL 2019
Il primo semestre dell’anno è dedicato a una ripresa dolce e alla bambina. Vorrei riuscire a utilizzare parte dello spazio mentale sgombro in questa prima parte dell’anno per tre cose. Studiare con regolarità, qualcosa di immediatamente utile per il mio lavoro e qualcosa di completamente diverso, come dicevo. Sviluppare un paio di progetti con degli amici con cui mi piacerebbe costruire qualcosa di nostro. Tornare a scrivere qui, principalmente. Me lo ero già riproposta per il 2018, oggi ho portato la giustificazione scritta, come a scuola.
Il 2019 sarà l’anno dei piani riusciti, solidi anche se non sempre perfetti.
Buon anno!
NOTE
* Gli altri due sono far sì che cose belle da leggere incontrino lettori e insegnare.
** Giuro che la letteratura per ragazzi mi interessava anche prima di avere una bambina.

Domani sarà il mio ultimo giorno di lavoro in Rizzoli. Nel 2013, quando sono arrivata a occuparmi della parte di content strategy e social media management per l’area digital dell’ufficio marketing, c’era un account Twitter con più o meno 3000 follower e poco altro. C’era anche la curiosa circostanza di essere la stessa persona dietro quattro marchi editoriali, contemporaneamente: Rizzoli, BUR, Fabbri e per gran parte del tempo anche Bompiani. Dopo quattro anni e innumerevoli rischi di sdoppiamento della personalità, cessioni, acquisizioni, fusioni, frustrazioni, traslochi, laghetti, è arrivato il momento di cambiare.
Dopo dieci anni da lavoratrice dipendente, in ufficio dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 18, una serie di fortunate coincidenze mi porta a scegliere di fare la freelance: il 2018 si annuncia ricco di progetti straordinari che mi riempiono di entusiasmo. Era in effetti da un bel po’ di tempo che non guardavo al lavoro con tanta allegria.
DESIGNERS ITALIA
Il progetto principale riguarda Designers Italia, per il Team per la Trasformazione Digitale. Come UX Writer mi occupo di scrivere, organizzare e rivedere contenuti: per le linee guida, i kit di design, varie ed eventuali. Oltre a questo c’è un blog, che comincia a carburare, e molto altro ci aspetta da qui a settembre 2018. Era davvero da tanto che non ero così entusiasta di far parte di una squadra e di un progetto, di volerci mettere anche la faccia con convinzione. La possibilità di testare, finalmente, quanto ho imparato al Master in Architettura dell’Informazione e User Experience Design è una sfida stimolante e farlo potendo affiancare professionisti di gran livello è straordinario, e rinfrescante.
EDITORIA
Non lascio certo da parte l’editoria, ma mi sposterò su dimensioni e visioni del libro e della sua comunicazione più affini alle mie personali, rispetto a quanto ho fatto negli ultimi anni: l’idea è di costruire qualità a lungo termine, e sarà questa idea a guidare le mie scelte. Sarò felice di condividere quanto imparerò anche in questi nuovi progetti, non appena saranno più maturi per poterne parlare. Intanto, ad aprile, mi aspetta il corso in Editoria Digitale all’interno del Master in Editoria dell’Università degli Studi di Verona: un mese intenso di lezione che metterà me per prima alla prova, e anche questa è una grande soddisfazione.
Io ci metto la grinta, voi fatemi un in bocca al lupo, che da gennaio si parte.

Era il novembre del 2007 quando Amazon annunciava la prima versione del Kindle, aprendo di fatto – e finalmente in modo decisivo – il mercato del libro digitale. «Abbiamo lavorato al Kindle per più di tre anni. Il nostro obiettivo principale di design era che il dispositivo scomparisse tra le vostre mani, che si levasse di mezzo, così che poteste godervi la lettura», diceva Bezos. «Volevamo anche andare oltre il libro fisico. Il Kindle è wireless, quindi che siate stesi a letto o in viaggio su un treno, se vi viene in mente un libro potete averlo in meno di 60 secondi. Non serve il computer: potete acquistarlo direttamente dal dispositivo. Siamo entusiasti di rendere disponibile il Kindle, oggi.»
Sul Guardian i primi scetticismi suonavano più o meno così: «Sul serio? Un Kindle, per 400$? Ma sapete quanti libri potete comprare con quella cifra? Senza contare che un Sony Reader è molto più carino e con quella cifra vi danno pure il resto.» Mentre Sony ha smesso di produrre eReader nel 2014, Kindle è alla sua ottava generazione: nella sua versione di base costa 70€ (69,99€, per amor di precisione) ed è un acquisto ghiotto anche per lettori non troppo entusiasti del digitale. La differenza tra un dispositivo indipendente da una specifica libreria e uno parte di un ecosistema (chiuso, ma completo) sta nell’esperienza di acquisto dei contenuti. Nel giardino chiuso di Amazon è possibile non curarsi di nulla, né di compatibilità di formati né di complicati form per le procedure d’acquisto: la micidiale efficacia del “compra con un clic” si paga con una minore libertà, da un certo punto di vista. Indipendentemente da questa considerazione e da tutte le obiezioni e valutazioni a corollario, i fatti dimostrano che la maggioranza dei lettori digitali – ancora pochi, se paragonati ai già scarsi lettori che preferiscono la carta – apprezza questa comodità: l’attenzione sta nella scelta del prossimo libro da leggere o nella lettura stessa, anzi che in distrazioni poco pratiche come cercare un cavo di connessione o nella conversione da un formato a un altro.
Era il 2010 quando sul mercato arrivava un altro tassello del cambiamento, anche se meno diretto nelle intenzioni: Apple lanciava la prima generazione di iPad. In un comunicato stampa molto simile a quello per il lancio del Kindle, Steve Jobs dichiara: «L’iPad è la nostra tecnologia più avanzata messa a disposizione di un dispositivo magico e rivoluzionario, a un prezzo incredibile. L’iPad crea e definisce una categoria di dispositivi completamente nuova, che metterà gli utenti in relazione con applicazioni e contenuti in modo molto più intimo, intuitivo e divertente, mai visto prima.»
Apple non ha grande interesse per il mercato del libro, digitale o cartaceo che sia: rientra nella sua più generale proposta di entertainment, ma non è certo il cuore dei suoi affari. Lo dimostra la pessima organizzazione dei contenuti nella sua libreria digitale, iBooks, in cui in nessun modo serendipity e discoverability – per rispolverare due stucchevoli buzzword in auge qualche anno fa – sono facilitate o incoraggiate. Su iBooks, insomma, è impossibile perdersi tra gli scaffali; in più non c’è alcun pensiero da libraio, se non per l’esposizione delle classifiche dei bestseller. Questo fa somigliare lo spazio di vendita di eBook di Apple molto più alla grande distribuzione, che nemmeno per i libri cartacei gode più di buona salute: o ti interessa il libro che si fa notare perché alto in classifica oppure non sai che pesci prendere (a meno che tu non sappia esattamente che pesci prendere, e allora puoi rivolgerti alla casella di ricerca).
Sono passati dieci anni, e sono felice di fare ancora corsi sull’editoria digitale. Quello che dopo tanto tempo mi va invece molto stretto è il bisogno di doverla ancora distinguere da un qualche tipo di editoria analogica. È dagli anni ’80 che l’editoria di analogico ha ben poco: il libro e i suoi processi di produzione sono digitali dalla prima stesura del manoscritto (che continua a chiamarsi così anche se non implica carta, penna e calamaio) fino all’ultimo passo prima dell’andata in stampa. E a volte si tratta persino di stampa digitale.
Eppure, nelle case editrici, il digitale continua a entrare troppo spesso malgrado chi le dirige e ci lavora, e in genere dalle porte sbagliate: dal rumore e non dalla strategia. L’editore va a caccia di farfalle: di autori “famosi su Twitter”, di magiche “viralizzazioni” che sembrano epidemie di influenza, di metriche che significano solo vanità e non sostanza, e l’elenco potrebbe proseguire.
Le farfalle, si sa, hanno vita breve. Si parte sempre dall’ultimo punto dell’elenco, dall’ultimo grano di gerarchia nell’ordine delle priorità. Invece di serrare i ranghi e ripensare il proprio ruolo, che ha valore per autorevolezza di selezione e proposta di contenuti, e per capacità di individuare quale sia il modo migliore per presentarli e distribuirli, raggiungendo con ciascuno il giusto pubblico e cercando di ampliarlo il più possibile, invece di concentrarsi su tutto questo, con le strategie, il lavoro, il pensiero che il 2017 richiederebbe, gli editori lavorano in modo ossessivo su atomi, su singoli titoli, che a tavolino dovrebbero diventare dei bestseller, come succedeva – per caso o più raramente per bravura – anni fa, e come non succede più da troppo tempo per credere (o peggio, sperare) che possa funzionare ancora. Non funziona più, e non c’è modo di ribaltare i dati per far sì che mostrino un’evidenza diversa da questa. Se il bisogno di rinnovamento qualche anno fa era urgente, ora si è fatto drammatico: non basteranno altri 2€ sul prezzo di copertina per mantenere uno status quo sempre più sgretolato e continuare a pagare tutti gli stipendi.
Nelle slide del corso fatto anche quest’anno per il Master in Comunicazione della Scienza “Franco Prattico” alla SISSA di Trieste non troverete la soluzione ai drammi dell’editoria, purtroppo: se le avessi mi troverei a godere dei frutti della mia trovata geniale su quest’amaca della Polinesia francese. Ma dato che solo chi non fa non sbaglia, ho provato a ipotizzare un’alternativa al normale percorso del lavoro editoriale: un’alternativa che riesca a includere come parte integrante del ragionamento anche il digitale, senza gestirlo come compartimento stagno a volte scomodo, altre irrilevante, che si trasforma troppo spesso in un triste “facciamo uno sconto sugli eBook” o “twittiamo la presentazione dell’autore se no si scontenta”. Non è una proposta che riguarda specificamente il lavoro in redazione, ma il progetto del libro (o della collana, o dell’editore stesso, meglio ancora): a chi si rivolge, come dev’essere fatto, quanto deve costare. Una proposta acerba e molto, molto perfezionabile, per provare a prendere decisioni migliori in questo senso. Apertissima a qualunque domanda e osservazione, di conseguenza: scrivetemi i vostri pareri e li leggerò con entusiasmo.
Nelle slide si parla anche di linotype, di applicazioni e self publishing, di design (che poi vuol dire progettazione, appunto, anche se dirlo in italiano ci fa sentire meno alla moda e ci dà la sensazione che comporti lavoro e fatica, che disdetta); ci sono dei lemmings, quelli del videogioco, inquietante metafora di un certo stantio pensiero editoriale, e ci sono almeno un paio di gorilla del dubbio.

È passato quasi un anno dall’ultimo post: il ritmo della scrittura non è più quello di una volta, ma per fortuna quello dei pensieri non ha rallentato allo stesso modo. Continuano i corsi per le professioni dell’editoria di minimum lab: sabato 1 aprile c’è stata la lezione sul content marketing: concentrare in poche ore un argomento così vasto è stata un’impresa non da poco e come è ovvio il risultato non è esaustivo.
Ho preferito impostare il discorso più su teoria e metodo, rispetto a un elenco di strumenti che sarebbe invecchiato nel tempo chiudere le slide e sarebbe stato poco costruttivo, tutto sommato. Impadronirsi dei ragionamenti mi sembra sempre più importante dell’essere aggiornati sull’ultimo software sul mercato: per imparare a pensare bene non serve un’astronave, carta e penna bastano per chiarirsi le idee.
Facendo tesoro della mia esperienza ho cercato di offrire strumenti che permettano di disinnescare, se non del tutto almeno in parte, le stravaganti pretese di chi nelle aziende spesso ha potere decisionale ma nessuna competenza; di offrire argomenti da contrapporre con intelligenza alle varie convinzioni infondate e leggende metropolitane con cui chi fa questo mestiere può trovarsi a fare i conti. Qui e là ci sono anche imprecisioni volute: tenete alte le antenne dello spirito critico!